Moratti e la sua lettera all'Inter

75 anni, a tinte nerazzurre. Nel giorno del suo compleanno, Massimo Moratti ha scritto una lettera aperta al grande amore della sua vita. L’Inter, la squadra di cui è stato presidente, a più riprese, tra il 1995 e il 2013.

“Non ho mai perso il sonno prima delle partite più importanti ma spesso, quasi sempre, l’Inter è stato l’ultimo mio pensiero prima di addormentarmi. Un pensiero dolce, fatto di fantasie di campo: tratteggiavo nella mente azioni e possibili giocate dei nostri campioni. Ragionamenti da tifoso, rilassanti. Poi, la mattina, si passava alla dimensione più pratica: scelte, decisioni, impegni.

La responsabilità di guidare la società è sempre stata accompagnata dal sentimento nei confronti di questi colori.

E nonostante fossi consapevole che dai risultati dipendeva anche la felicità di tanti tifosi, non ho mai vissuto il mio ruolo come un peso, come qualcosa di faticoso. È vero, le sconfitte fanno più male di quanto facciano bene le vittorie, perché sono più dure da dimenticare. Però ho sempre guardato avanti con fiducia.
E alle partite ho sempre cercato di esserci: allo stadio non sei solo, in qualche modo puoi cercare di allentare la tensione confrontandoti con gli altri, il contesto aiuta a distrarti un po’ da quello che è il senso della partita. Seguirle da casa, invece, mi ha sempre costretto a sofferenze extra: intanto perché ti dispiace non essere sul posto. E poi perché non hai nessuno con cui condividere, con cui arrabbiarti. Paradossalmente, arrivavo persino a prendermela con il presidente, quando le cose non andavano bene, come avrebbe fatto un qualsiasi tifoso appassionato, pur sapendo benissimo che il presidente ero io.

Se mi sono mai arrabbiato veramente? In qualche circostanza, devo ammetterlo, sì. E penso che l’arrabbiatura più grossa, quella in cui mi sono fatto sentire perché pensavo fosse doveroso e necessario, sia stata quella dopo l’eliminazione per mano del Manchester United nella Champions League del 2009. Si è sempre pronti ad accettare che non si vinca, ma avevo capito che era il momento di fare un salto, uno scatto.
Tutto aiuta a crescere. Il derby dell’agosto 2009 lo ricordo perché, al di là della partita meravigliosa e dei gol bellissimi, era una sfida che arrivava dopo un avvio complicato: sconfitta nella Supercoppa, pareggio con il Bari. Era la prima di Sneijder: vidi una squadra forte, con una consapevolezza maggiore. Quello che sogna il tifoso: un gruppo conscio della propria forza.
I derby che ti ricordi di più, però, sono quelli più sofferti. Quello di ritorno, quell’anno, è stato a suo modo straordinario. A fine primo tempo eravamo avanti 1-0 ma sotto di un uomo. C’era una tensione altissima allo stadio, percepivo il nervosismo dei giocatori. Volevo essere d’aiuto, pensavo che la mia presenza negli spogliatoi potesse dare un segnale di vicinanza ai giocatori. È una cosa che non ho fatto spesso, anzi raramente. Arrivato giù, mi sono trovato di fronte una scena che non mi aspettavo: i calciatori erano tranquilli, seduti.
Al centro della stanza, José Mourinho. Non avevo altro da fare che rimanere in silenzio ad ascoltare le sue indicazioni. Precise, utili. Di natura tattica, per sopravvivere all’inferiorità numerica. E motivanti: “Vedrete, avremo l’occasione per fare il secondo gol”.

Kiev e Londra sono state due tappe fondamentali di quella cavalcata. In Ucraina non andai. Avevamo di fronte quel Shevchenko che ci aveva sempre dato parecchio fastidio. Era importante non commettere gli errori del passato: a Kiev avevamo già lasciato una qualificazione qualche anno prima. Il finale di quella partita resta memorabile, con lo zampino di Diego Milito in entrambi i gol. Bravo, quel ragazzo... Con il Chelsea, invece, è stata la vera prova di maturità.
Di Barcellona-Inter si ricorda spesso il fischio finale, la mia esultanza ricomposta subito nel saluto al presidente del Barcellona.

Ma qualche minuto prima, senza gli occhi addosso delle telecamere, era successo qualcos’altro.

Ho sentito una fitta al cuore.

Il tempo si è fermato. Non ho percepito più alcun rumore. Ho visto l’arbitro fare un passo, girarsi e indicare la punizione. Solo in quel momento il tempo ha ricominciato a scorrere, i colori sono tornati. Alla mia destra Joan Laporta era scattato in piedi, esultante. Io, seduto. Gli ho afferrato il braccio sinistro: “Lo hanno annullato”, gli ho detto. Sì, il gol di Bojan era stato annullato.

Era un gruppo bello, unito, fatto di gente per bene. Penso a Chivu e al suo infortunio terribile. Il dottor Combi fu fondamentale nell’accorgersi della situazione, il ragazzo poi reagì alla grande e fu coraggioso a tornare in campo in poco tempo. Segnali importanti. Come quelli che dava Maicon, ad ogni partita: quando l’abbiamo preso non pensavamo potesse diventare così forte, è sempre stato il nostro attaccante aggiunto, impressionante.
Dieci anni fa, oggi, viaggiavo verso Siena carico di speranza. Come i nostri tifosi. Sapevo che sarebbe stata una battaglia, su un campo piccolo, in uno stadio che conoscevamo bene. È stato un bel compleanno, non c’è che dire: sofferto, ma entusiasmante. E c’era ancora da mettere l’ultimo mattone, quello di Madrid.

Alle persone che non ci sono più e alle quali hai voluto bene pensi spesso. Nel mio caso capitava e capita ancora oggi. E mentre si avvicinava la sfida del Bernabeu, mentre Milito segnava i due gol, mentre tutto aveva il suo compimento, ho pensato con forza a tre persone.
A Peppino Prisco, alle sue frecciate che diventavano definizioni, così sinteticamente spiritoso, così interista.
A Giacinto: provavo un dispiacere sordo, perché lui meritava di vedere quei trionfi. Mi mancavano le chiacchierate con lui, mi mancava chiedergli consigli sui giocatori da acquistare. Mi mancava tutto.

A papà Angelo. Sono sempre stato collegato a lui. Lui mi ha insegnato tutto, ha formato il mio modo di pensare. È stato inevitabile dedicare a lui il sorriso più dolce. E nel suo ricordo ho lasciato che fosse mio figlio a portare la coppa a Milano.
Io, al fischio finale al Bernabeu, ero solamente felice. Ho provato una gioia piena, completa.

Con Mourinho ci siamo incontrati due giorni dopo: l’ho invitato a cena a casa mia, a Milano. Gli ho fatto trovare un discreto centrotavola: la Champions League, nella quale entrava alla perfezione un regalo straordinario, il mio nipotino nato da poco. È stata una serata piacevolissima, di grande affetto, nella quale ci siamo detti quel segreto di cui tutti parlavano ma che noi non avevamo mai affrontato prima, perché era giusto così.

Tutto questo succedeva 10 anni fa. Non sono svaniti i ricordi, non sono sbiadite le emozioni. Alla guida dell’Inter, ora, c’è una famiglia che ha la stessa nostra passione. Steven Zhang mi ha più volte ribadito il suo orgoglio nell’essere il presidente di questo club: è giovane, intelligente e sensibile. Ed è interista.

C’è una sola parola che può descrivere al meglio gli interisti: innamorati. Ne abbiamo tutte le qualità, i difetti e i pregi. Il nostro è un amore incondizionato per i colori nerazzurri.

Sarà così per sempre.

Massimo Moratti”.